Si scrive decreto “Sblocca Italia ma si legge “sblocca trivelle”. E’ quanto sostengono le associazioni ambientaliste, che sono sul piede di guerra, dopo la pubblicazione, avvenuta ieri, del decreto legge 12 settembre, n. 133 “Misure urgenti per l’apertura dei cantieri, la realizzazione delle opere pubbliche, la digitalizzazione del Paese, la semplificazione burocratica, l’emergenza del dissesto idrogeologico e per la ripresa delle attivita’ produttive”. Tra le associazioni più attive su questo fronte, la Organizzazione lucana ambientalista e, naturalmente, il movimento No Triv. Nel mirino delle critiche degli ambientalisti, in particolare, ci sono i due articoli che si riferiscono agli idrocarburi, il 36 e il 38. L’articolo 36 del decreto sblocca Italia è una sorta di specchietto per le allodole e riguarda le “Misure a favore degli interventi di sviluppo delle regioni per la ricerca di idrocarburi”. Questo articolo, infatti, prevede che le «spese sostenute dalle regioni per la realizzazione degli interventi di sviluppo dell’occupazione e delle attività economiche, di sviluppo industriale e di miglioramento ambientale nonché per il finanziamento di strumenti della programmazione negoziata nelle aree in cui si svolgono le ricerche e le coltivazioni di idrocarburi, per gli importi stabiliti con decreto del Ministro dello sviluppo economico, di concerto con il Ministro dell’Economia e delle finanze da emanare entro il 31 luglio di ciascuno anno». Per gli ambientalisti, si tratta solo di una promessa da parte del governo che le royalty concesse ai territori proprio per le estrazioni degli idrocarburi, non rientrano nell’ambito del patto di stabilità. L’articolo maggiormente osteggiato dagli ambientalisti, però, è il 38, che, in pratica anticipa i contenuti della revisione del Titolo V della Costituzione, sulla preminente materia concorrente da oggi di competenza dello Stato. Si tratta di una norma che taglia fuori, completamente le regioni, riportando in capo ai ministeri le autorizzazioni ambientali per le concessioni offshore. Nello specifico, per le concessioni sulla terra ferma, invece, il decreto fa riferimento a generiche “intese” con le regioni interessate. La competenza, comunque, è attribuita al Ministero dello Sviluppo economico; le procedure autorizzative (Via) per istanze di ricerca, i permessi di ricerca e concessioni, invece, ritornano ad essere di competenza del ministero dell’ambiente e non più alle regioni, come in passato. Nell’articolo 38 si legge: «Le attività di prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi e quelle di stoccaggio sotterraneo di gas naturale rivestono carattere di interesse strategico e sono di pubblica utilità, urgenti e indifferibili». La conseguenza è che, se le regioni non applicano il decreto “Sblocca Italia” entro il 31 dicembre di quest’anno, lo farà il Governo, applicando i poteri sostituitivi. Il tutto in base alla dichiarata strategicità del settore energia, di cui il Governo ha avocato a se tutti i poteri. Ciò che gli ambientalisti temono è un vero e proprio assalto alla diligenza, con nuove piattaforme e nuovi giacimenti da cui estrarre barili e barili di greggio, petrolio e metano, oltre quello che già si produce, e che non sono certo modiche quantità. Basta pensare che si tratta di 12.827.700 metri cubi standard all’anno, relative alle sole concessioni Eni (Ionica gas), davanti alla costa crotonese. Il colosso energetico ha già sei piattaforme e 28 pozzi in produzione. Altre richieste, purtroppo come ben sappiamo, tenuto conto che è da oltre un anno che vanno avanti iniziative di vario genere, sono state avanzate sul litorale di alcuni comuni del cosentino, tra i quali figura anche quello di Corigliano.
Giacinto De Pasquale