Le dichiarazioni di Pietro Salvatore Mollo, aspirante collaboratore di giustizia, morto suicida in carcere nel 2010
Usarono la potenza di fuoco di due fucili mitragliatori kalashnikov per rispedire al Creatore il boss di Corigliano Calabro Antonio Bruno alias “Giravite”, 58 anni, ed il povero innocente che si trovava quasi per caso in sua compagnia, il 56enne coriglianese Antonio Riforma detto “Asso di mazza”. Erano le 7 del mattino del 10 giugno 2009. La plateale imboscata mortale, consumata lungo una strada interpoderale di contrada Torre Voluta, nella disseminata campagna coriglianese, andava in scena a pochissimi giorni dall’elezione dell’ex sindaco Pasqualina Straface la cui amministrazione due anni dopo fu sciolta per infiltrazioni mafiose.
Quel duplice omicidio – vero obiettivo dei killer era Bruno, Riforma fu eliminato perché testimone “scomodo” – segnò un radicale cambio di potere nella ‘ndrina di Corigliano Calabro sottoposta all’influente locale ‘ndranghetista degli “Zingari” con sede nella confinante Cassano Jonio.
La cesura definitiva con gli “uomini di rispetto” della vecchia generazione ‘ndranghetista coriglianese che erano tornati in libertà dopo anni di galera.
La stessa sorte di “Giravite” qualche anno addietro era toccata ad altri. Un nome su tutti: quello dell’aspirante “reggente” della ‘ndrina Giuseppe Vincenzo Fabbricatore, trucidato insieme al “compare” Vincenzo Campana detto “Qua-Qua” in uno spettacolare agguato a colpi di kalashnikov lungo il tratto di Statale 106 che da Corigliano Calabro conduce verso Sibari, e quindi nel Cassanese.
Epurazioni di ‘ndrangheta al centro del maxiprocesso “Timpone Rosso”, il cui appello s’è concluso con la sentenza pronunciata giusto un mese fa.
Ipotetici mandanti ed esecutori materiali dell’omicidio di Antonio Bruno “Giravite” emergono da un verbale di dichiarazioni rese da un altro boss coriglianese, ex aspirante collaboratore di giustizia.
Già, perché Pietro Salvatore Mollo oggi non può più aspirare a nulla, essendo morto suicida nel dicembre del 2010 all’interno della sua cella nel braccio di massima sicurezza del carcere “Le Costarelle” de L’Aquila dov’era detenuto al 41-bis. Un suicidio dalle modalità strane il suo, ma il “caso” è già chiuso.
Ciò che rimane bene aperto è invece il verbale – e la relativa registrazione audio – delle dichiarazioni rese circa un mese prima di morire, il 18 novembre del 2010, al sostituto procuratore della Direzione Distrettuale Antimafia di Catanzaro, Vincenzo Luberto.
«(…) Antonio Bruno è stato ammazzato perché s’era alleato coi Forastefano, Cenzo Pirillo e Portoraro. Lo stesso Antonio Bruno m’aveva confidato di temere ritorsioni dei coriglianesi che erano alleati con gli zingari. Ho partecipato ad una riunione insieme a Filippo Solimando, Francesco Sommario, Pietro Longobucco, il nipote di quest’ultimo e tale Annibale, uomo e parente di Nicola Acri. Nell’ambito di questa riunione mi si diceva che Antonio Bruno da lì a poco era finito. A quella riunione sono stato convocato per fare pace, in quanto ero un formidabile picchiatore e in quel periodo stavo picchiando tanta gente. Lo stesso Filippo Solimando in un’altra occasione mi diceva che Antonio Bruno sarebbe stato ucciso da Salvatore Ginese e da Annibale, mi disse pure che le armi, due kalashnikov, erano state portate da Castrovillari. In relazione all’omicidio Fabbricatore posso riferire che effettivamente Fabbricatore voleva prendere il potere a Corigliano per come lo stesso Fabbricatore mi riferiva nel corso d’una comune detenzione nel carcere di Siano nell’anno 1999, quando nel 2002 Fabbricatore usciva dal carcere mio cugino Vincenzo Campana mi raccontava che lo stesso Fabbricatore aveva fissato più appuntamenti tramite Maurizio Barilari e Fabio Falbo agli zingari e a Nicola Acri. In esito ad uno di questi appuntamenti Fabbricatore è stato ucciso (…)».
Al termine delle sue confessioni Pietro Salvatore Mollo non volle però firmare il verbale. Pare avesse richiesto al magistrato che l’aveva interrogato una serie d’inesaudibili “garanzie”.
L’atto risulta dunque vergato solo dal togato, da due sottufficiali dei carabinieri che lo hanno redatto e dall’avvocato Valeria Maffei del foro di Roma chiamato ad assistere l’aspirante collaboratore di giustizia.
La magistratura giudicante ha ritenuto “attendibili” le dichiarazioni, registrate pure su un file audio.
Esse sono infatti richiamate nelle sentenze emesse dai giudici di primo e secondo grado nell’ambito del maxiprocesso “Santa Tecla” e nella sentenza di primo grado del maxiprocesso “Timpone Rosso”, che non avevano però ad oggetto l’omicidio di “Giravite”.