Aveva collaborato con la giustizia
Avrebbe voluto farla finita, tagliandosi le vene dei polsi con una lametta usa e getta. Ma non v’è riuscito: qualcuno dei suoi familiari l’ha soccorso all’interno della sua abitazione di Corso Cavour, a Cassano Jonio, allertando il 118 e, al contempo, i carabinieri. Il protagonista della vicenda è Battista Iannicelli, 52 anni, fratello di Giuseppe Iannicelli, morto ammazzato a colpi di pistola e poi carbonizzato con bestiale ed inaudita ferocia nell’abitacolo della sua Fiat Grande Punto insieme alla giovane amica di nazionalità marocchina “Betty” Taoussa ed al nipotino Nicola “Cocò” Campolongo d’appena tre anni, figlio di sua figlia, il 16 gennaio dello scorso anno, in quella sperduta campagna cassanese di contrada Fiego.
Dopo la morte del congiunto, Battista Iannicelli aveva reso dichiarazioni ai carabinieri, raccontando particolari che riguardavano la vita dello sventurato fratello. Il verbale di quelle dichiarazioni è allegato agli atti della maxinchiesta “Gentleman”, condotta dalla Guardia di finanza contro il locale di ‘ndrangheta cosiddetto degli “zingari” operante nell’area settentrionale jonica della Calabria. Un’inchiesta coordinata dal procuratore capo della Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro, Antonio Vincenzo Lombardo, e condotta da un pool di magistrati composto dai procuratori aggiunti Giovanni Bombardieri e Vincenzo Luberto, e dal sostituto Domenico Guarascio.
Nella sua deposizione, Battista Iannicelli avrebbe rivelato che il fratello era stato più volte “convocato” nella frazione cassanese di Timpone Rosso, sede logistica del locale di ‘ndranghetadegli “zingari”, per via di “dissapori” sugli affari illeciti legati allo spaccio di droga.
La droga è il “filo rosso” che lega la famiglia Iannicelli a numerose inchieste di forze dell’ordine e magistratura.
Battista Iannicelli, in particolare, agl’investigatori aveva parlato d’una lettera. Una missiva mandata dal fratello Giuseppe alla moglie – la quale era in carcere proprio per spaccio di stupefacenti – nella quale l’uomo lamentava la mancanza di sostegno economico e, soprattutto, in cui paventava la possibilità di cominciare un rapporto di collaborazione con la magistratura.
Giuseppe Iannicelli nel testo avrebbe fatto riferimento, insomma, alla concreta possibilità di “pentirsi”. Dei contenuti della lettera, della quale però non sarebbe stata trovata traccia dagl’inquirenti, potrebbe probabilmente essere filtrata qualcosa all’esterno. Un’ipotesi, questa, presa in considerazione dai magistrati antimafia e corroborata dalle stesse dichiarazioni di Battista Iannicelli.
Rimane difficile capire perché il piccolo “Cocò” non sia stato risparmiato dai killer del nonno e della sua giovane amica marocchina. Il dubbio è che il bambino potesse essere in grado di riconoscere i sicari che – è solo un’ipotesi investigativa – forse aveva visto già parlare in altre occasioni col nonno.
L’inchiesta sulla terribile morte del piccolo “Cocò” avrà presto una svolta?