Noi arbëresh siamo le tessere di un mosaico che definirei “archeologia linguistica,etnica,somatica,caratteriale di cose vive e non morte”. Voglio spiegarmi meglio:Pompei,le piramidi,le tombe etrusche,sono i meravigliosi resti di civiltà rispettabilissime ma defunte. Cioè sono certamente capolavori architettonici ed artistici ma non sono altro che “contenitori”,ormai vuoti, di ciò che fu il loro contesto storico.
Sì,é vero,visitandole,ti suscitano indicibili emozioni ma poi tutto finisce lì. Al massimo,per coglierne il pathos,devi ricorrere alla consultazione storico letteraria.
Andiamo,invece,al nostro mondo arbëresh.Ebbene,noi siamo l’esatto contrario.Siamo”l’archeologia vivente” di quel variegato “contenuto” fatto,oggi,come cinquecento anni fa,ma che dico,anche mille,duemila e,perchè no, tremila anni fa,di persone che parlano,ti ascoltano,ti domandano e danno risposte,ti abbracciano,ti palpano, ti annusano,alla ricerca di umoralità molto antiche per verificarne le coincidenze,il combaciare linguistico,la terminologia domestica,religiosa, culturale,del lavoro e dello svago.
Tutto ciò lo affermo avendolo vissuto visitando l’Albania? Macchè,tutt’altro.Percorrendo la Grecia,in lungo e in largo,e quì interviene “l’archeologia vivente”,e diventiamo, noi arbëresh,Shliemann,e Zanotti Bianco,alla ricerca,non di siti,ma di quei suoni particolari che fanno dell’albanese una lingua inconfondibile.
Per quanto il governo greco si sforzi di nasconderlo,la Grecia pullula di paesi che parlano un “arbërorë” perfettamente uguale al nostro arbëresh. Ogni arbëresh che ha visitato l’Albania puó confermare che qualche difficoltà nel dialogare l’ha sicuramente riscontrata.
Per quanto mi riguarda posso affermare che con gli arbërorë di Grecia è come conversare con un”Mbuzaciot” o “Shënmitriot” o “Vakariciot”.
Vicino a Tebe,che abbonda di arbërorë,c’è Mandra che è tutta abitata da arbërorë (ma i greci li chiamano arvaniti). Come abbiamo appagato la loro curiosità? Rispondendo con naturalezza.
Si e thoni rroςken. rroςk. mirë alb. Idem
si e thoni buken. b ukë mirë. alb. idem
si e thoni kaciqin. kaciq. mirë. alb. kec (capretto)
si e thoni kësistren. kësistrë mirë. alb. Kruesë (raschietto)
Si e thoni jatroin. jatroi. mirë. alb. mieku. (medico)
Si e thoni jatrien. jatri. mirë alb. medicinë (medicina)
si e thoni gajdhurin.gadhur. mirë alb. gomar (asino)
si e thoni dhaskallin.dhaskall.mirë. alb. mësues (maestro)
si e thoni tirqin. tirq mirë alb. pantallon (pantaloni)
si e thoni fucken fuck. mirë. alb. fëshikë (vescica)
Con ciò dove voglio arrivare?
Oltre 500 anni fa noi siamo venuti non dall’Albania ma dal Peloponneso,la mitica Morea (infatti il nostro canto carico di struggente malinconia non recita “oj e bukura Arbëri” ma “oj e bukura Morè”) e non ci è dato sapere da quanti secoli eravamo già nel Peloponneso.
Probabilmente non eravamo contadini o montanari che scappavano,ma soldati,se vuoi di ventura,ma soldati. Faremmo bene a documentarci su chi erano i famosi “stradioti”che furono presenti in tutte le più importanti battaglie europee,molto ben retribuiti,sempre agli ordini dei loro capitani di ventura, e con diritto di preda,dove la preda era il tesoro,la cassa,di cui ogni esercito era immancabilmente fornito (“c’est l’argent qui fait la guerre”) e gli albanesi,la”guerre”,la spevano fare,a giudicare da quel che degli albanesi dice il più grande storico tedesco, l’insigne premio Nobel Theodor Mommsen:
“una vigorosa razza di uomini,gente sobria,temperata, impavida,altera.Eccellenti soldati”. Di certo,non siamo arrivati col”gommone” nè tantomeno, incalzati dai turchi che,peraltro,facevano a gara per averci dalla loro parte.
Siamo venuti perchè chiamati dai vari principi o feudatari locali,tra di loro in lotta,ansiosi di avere diponibili soldati affidabili (Besa),concededo,in cambio,insediamenti e certezza di lunga permanenza confermata dalla presenza di interi nuclei familiari (mogli,figli,masserizie e non mancava neanche il papas,questo,sicuramente, non gradito al Vaticano,che fece sempre di tutto per cancellarne il rito fino al compromesso greco-cattolico).
Magari il “gadhur”,che mai mancava nella disponibilità di una operosa famiglia dell’epoca,non lo portammo dalla Morea,visto che quì abbondavano,però il basto era di una foggia completamente diversa da quello degli indigeni, per presenza di due eleganti intrecci di legno,molto comodi come ganci per i legacci della soma nonchè validi appigli, a mo’di manubrio,sia per il conducente che vi montava in arcione,sul basto vero e proprio (në vith),sia per il secondo viaggiatore,di solito una donna o un bambino che trovavano comoda sistemazione sulle terga ( në bith).
Non dimentichiamolo.Per noi Skanderbeg fa parte del filone storico che,giustamente,orgogliosamente,non abbiamo mai rinnegato,come momentounificante dell’orgoglio albanese, come riconoscimento di un simbolo nazionale anche se i nostri diretti antenati non l’hanno,forse,mai conosciuto,alla pari di un legionario romano proveniente dalla Provenza che si trovò a combattere sotto l’imperatore Diocleziano, albanese (illirico) di Salona,oggi Spalato,senza averlo mai visto.
Allora i “media” erano le ballate ed i canti ricchi di quella struggente malinconia.
Ernesto Scura