Gli Illiri nell’Afghanistan (da Lidhja n°8/83)
Alcuni anni fa, trovandomi in Romania, dedicai molto del mio tempo alla visita delle chiese bizantine della Moldavia, veri gioielli d’architettura e di pittura. In quel girovagare tra un monastero e l’altro ebbi la fortuna d’imbattermi in un anziano professore, docente di Diritto Canonico all’Università di Bucarest. Conversatore amabilissimo, apprezzò molto il mio interesse per l’arte e la cultura bizantina. Spiegai che il mio interesse derivava dal fatto che io, ingegnere, operavo in Italia nel contesto di una minoranza albanese, cattolica, di rito greco.
Nell’apprendere che ero albanese si dilungò a tessere le lodi di questo popolo, diretto discendente degli antichi Illiri.
Parlò, con maturata convinzione, della dignità e della fierezza di questa gente e delle ragioni storiche che ne hanno causato lo smembramento ma non l’annullamento. « La vostra storia – mi disse – non va letta soltanto nelle pagine della Storia D’Albania, ma nella Storia di Roma, dei Balcani, della Grecia, della Turchia. Pensa! Alessandro il Macedone non era greco, e diede la gloria alla Grecia. Ma poi, fino a che punto era macedone questo inquieto figlio di Filippo e di Olimpiade, principessa d’Epiro?».
Mi sentii subito investito dall’obbligo di approfondire questo stimolante argomento. Cominciai col voler capire in che misura l’indole e il temperamento di Olimpiade avevano influito sulla formazione del giovane Alessandro e se la componente epirota ebbe o meno qualche ruolo determinante nelle folgoranti intuizioni e negli istintivi scatti di questo giovanissimo stratega.
E’ certo che Olimpiade, donna passionale, altera ed ambiziosissima, aveva programmato meticolosamente l’educazione del figlio che, nei suoi piani, avrebbe dovuto succedere a Filippo.
E’ fuor di dubbio che madre e figlio si parlassero in albanese, lingua che doveva essere di casa alla Corte di Filippo per la presenza del numeroso stuolo di famigli, dignitari e cortigiani che avevano seguito Olimpiade nella nuova reggia. Non a caso Alessandro fu affidato alle cure di Leonida, parente di Olimpiade, il quale dirigeva l’opera dei suoi non pochi pedagoghi ed istruttori che precedettero Aristotele nell’alto e difficile compito.
La cerchia personale di Alessandro era composta in stragrande maggioranza da amicizie che gli venivano dalla madre o da scelte autonome sapientemente operate tra i principi illirici come Clitone, figlio di Bardhulli e fratello della sua nutrice Eunice.
L’amicizia con Clitone ed il suo tragico epilogo ci danno l’esatta misura del coinvolgimento degli albanesi nella grande avventura di Alessandro.
E’ noto come Alessandro da “buon albanese”, non gradisse essere contraddetto. D’altronde, possiamo ben capire come Clitone, altrettanto “buon albanese”, non amasse l’adulazione, al punto da criticare coraggiosamente alcune decisioni di Alessandro. Accadeva cosi che, nella lontanissima Samarkanda, in un ennesimo scatto d’ira, Alessandro trafiggeva, con una sarissa, Clitone, uno dei suoi più valorosi generali al quale era, peraltro, legato da fraterna amicizia.
Sappiamo dello sconforto e della disperazione di Alessandro dopo quest’ atto inconsulto, ma ben poco è stato scritto sulla sorte dei seimila fedelissimi cavalieri eteri che Clitone aveva portato con sé dalle regioni illiriche. Sappiamo con certezza che quei seimila albanesi-illirici, per protesta contro l’uccisione del loro capo, disertarono dall’esercito macedone rifugiandosi nelle vallate dell’Hindu Kush, in mezzo alle montagne della Battriana, vera roccaforte naturale, a Sud-Ovest del Kashmir.
Per essere più chiari, s’insediarono in quella vasta regione, ai piedi dell’Himalaya, a cavallo dell’Afghanistan e del Pakistan, fraternizzando con le tribù del posto ( era impensabile un ritorno nei Balcani, data l’enorme distanza e la caccia inesorabile di Alessandro).
Vediamo cosa resta oggi, a distanza di ventitré secoli, di quei fatti e di quegli uomini.
I Kafiri sono uno dei popoli più affascinanti e misteriosi dell’Asia e non pochi elementi hanno contribuito a creare un alone di leggenda sulla loro presenza in quell’area dell’Hindu Kush che si chiama appunto Kafiristan.
Circondati dall’Islam, mantengono antichissime credenze pagane.
Alti, con la pelle chiara, i capelli castani e spesso biondi, sono famosi per la loro longevità.
La vallata in cui vivono resta isolata per sei-sette mesi quando la neve chiude i passi, gli stessi che attraversò Marco Polo nel suo favoloso viaggio.
A questo popolo ed a questo ambiente si ispirò James Hilton per scrivere il romanzo “Orizzonte perduto” da cui fu ricavato un altrettanto famoso film interpretato da Ronald Colman. Nel romanzo la felice vallata prende il nome di Shan-gri-La, ma in effetti si chiama Hunza (HUNDZA. Probabilmente l’orografia della zona richiama la forma del naso).
Bumburet, il capoluogo, è adagiato in una fertile pianura chiamata BALTA = FANGO. La loro lingua è il Burushaki = Gjuhë Burri. Le donne sono bellissime, socievoli e non si lasciano intimorire dalla presenza dello straniero.
Nel 1913 il Kafiristan, fino ad allora indipendente, fu annesso all’Afghanistan e migliaia di Kafiri, decisi a non convertirsi alla fede islamica, furono fatti a pezzi o squartati dai musulmani inferociti. Si salvarono dall’islamizzazione solo i Kafiri Kalash (neri, per le vesti che portavano le donne) rimasti al di là del confine.
A Bumburet si produce e si beve vino. Poiché non possono essere stati i musulmani, che li circondano da oltre mille anni, ad avere insegnato loro la tecnica della vinificazione, rimane l’ipotesi di un’antichissima tradizione che risale ai tempi di Alessandro. E, si badi, il vino viene bevuto sempre miscelato con acqua, all’antica maniera macedone.
Il culto dei morti e degli antenati, molto sentito, si estrinseca con monumenti funebri rappresentati da statue di legno, rozze, ma molto espressive, molte delle quali si trovano ora nel museo di Peshawar.
Ad onta di tutte le tragedie, di cui fu protagonista e succebe, questo popolo ha conservato l’indole bellicosa. Abili cavalieri, si cimentano periodicamente nel “Buskashi”, una sorta di torneo in cui cavalcando velocemente si strappavano di mano, a colpi di scudiscio, il corpo di un vitello morto.
La storia piuttosto recente li ha visti impegnati contro gli inglesi che tentarono inutilmente, con una guerra logorante, di sottometterli, onde garantirsi il controllo del passaggio verso l’India. Ma alla fine gli stessi inglesi dovettero ammettere di non esercitare alcuna sovranità su quella regione.
Come sempre, la sfida ai potenti usurpatori è lanciata da un piccolo popolo che nel grande nome racchiude il concetto di Libertà : Illiro = i lir = uomo libero.
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(*) L’A., nato a Corigliano da genitori arbëreshe di Vaccarizzo Albanese, scrive correntemente la lingua albanese avendo partecipato ai Seminari Internazionali di Lingua e Cultura Albanese di Prishtine (Kosovo – Jugoslavia). Pur essendo ingegnere, L’A. è un cultore di albanesità, proteso a scavare ed attingere dai suoi viaggi elementi universali unificatori validi per l’ARBERIA, intesa come diaspora. Ha pubblicato in LIDHJA : “Viaggio a ritroso in albania e in Grecia”, (n.2-3, 1981, pp. 10-11); “Albanesità: indagini e deduzioni” (n.4, 1981, pp. 1-2); “Genesi di una diaspora”, (n.5, 1982, p.77).