Le piccole e medie aziende della Piana di Sibari sono obbligate ad assumere manodopera straniera per non dover “fare i conti” con le furbizie degl’italiani. 
La presenza di lavoratori immigrati stagionali si rivela sempre più indispensabile per il settore agroalimentare della Piana di Sibari.
A testimoniarlo empiricamente è la loro stessa massiccia presenza in un comprensorio dove il tasso di disoccupazione non inverte affatto la tendenza calabrese e quella meridionale in genere.
Già, perché quanti dalle patrie della nuova emigrazione approdano qui nella Piana, quasi sempre vi restano. E trovano lavoro in men che non si possa dire. Soprattutto in agricoltura, settore che qui, da alcuni lustri, non vede alcun tipo di ricambio generazionale.
L’età media d’un bracciante locale è destinata infatti a salire anno dopo anno.
I figli dei cinquantenni, infatti, se non frequentano le università – il che è raro – cercano opportunità di lavoro in altri settori nel caso in cui non decidano di trasferirsi nelle ricche regioni del Nord Italia.
Tante braccia rubate ad un’agricoltura locale che per svariati fattori congiunturali “arretra” sempre più.
Ma la mancanza di manodopera locale è dovuta anche ad altri fattori.
E così, anche con dieci ettari di frutteti e almeno ottanta persone da impegnare quotidianamente, nella Sibaritide della disoccupazione diffusa accade che possa essere difficile trovare persone del luogo disposte a lavorare.
«Lo scorso anno – racconta un imprenditore agricolo di Spezzano Albanese proprietario di diversi pescheti – mi chiesero se avevo bisogno d’operai ed io che ero in piena campagna per la raccolta dissi di sì. Il mattino dopo gli operai si presentarono in azienda e iniziarono a lavorare. Così sono stato costretto ad occupare alcune decine di immigrati perché qui non si trova personale in nessun modo e per questo non possiamo rischiare di vedere marcire il frutto sugli alberi».
Quali difficoltà ha nella sua vana ricerca di operai?
«Chiediamo aiuto a tutti, dai sindacati alle associazioni di categoria, ma il personale italiano o non si trova o detta le proprie regole».
Che tipo di regole?
«Ne esistono varie forme ma la più diffusa è la richiesta d’assunzione di parenti, e in particolare soltanto per versare loro i contributi Inps senza però venire a lavorare le giornate – “vi paghiamo noi i contributi” – ci dicono. E dopo l’assunzione gli operai si rifugiano dietro lunghi periodi malattia».
Quindi non rimane altro che correre ai ripari attraverso l’assunzione di stranieri?
«Le piccole e medie aziende agricole della Sibaritide sono al collasso, non abbiamo personale disposto a lavorare e quella degli stranieri è l’unica manodopera possibile. Le associazioni di categoria sono completamente assenti, il collocamento e le istituzioni connesse non funzionano, il sistema bancario locale affonda le piccole e medie imprese agricole anziché aiutarle e sostenerle. In questi giorni ho chiuso una serie di contratti di vendita ma non so dove prendere il personale e rischio di perdere il prodotto».
Ammetterà però che nella Sibaritide esiste il drammatico fenomeno dello sfruttamento della manodopera straniera irregolare, con orari inverosimili e paghe da miseria?
«Gli operai che hanno lavorato nella mia azienda hanno sempre avuto salari puntuali ogni fine settimana, io ho sempre retribuito ogni singolo operaio in maniera regolare e con paghe sindacali, perciò non si può generalizzare».
In ogni caso, sarebbe un bene non costringere le imprese agricole ad arrangiarsi con le “quote” di lavoratori immigrati stagionali cui è consentito l’ingresso in Italia, poiché il rischio che esse possano assumere immigrati clandestini è proprio dietro l’angolo.


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